Hanno detto

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TRA LE MACERIE DELLA CERTEZZA
Alessandro Salvi su “Cani al Guinzaglio nel Ventre della Balena”
Simone Molinaroli “Cani al Guinzaglio nel Ventre della Balena” (Poesie 1994-2000) Fara Editore, 2008 Rimini

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C’è una poesia impermeabile a ogni sorta di vittimismo, quel vittimismo così spesso frequente in tanta poesia, soprattutto in quella intimista. C’è una poesia, dunque, che si pone come strumento di difesa contro la bieca, ottusa nonché mansueta accettazione di ogni facile consolazione. È il caso di Simone Molinaroli, poeta e performer pistoiese. Aprendolo questo libro ci sorprende questo impietoso scavare dentro la ferita, questo sondare e guardarsi senza infingimenti, con sguardo acuminato, teso in uno strenuo ed estenuante corpo a corpo con la materia incandescente della realtà di ogni giorno. Il tutto condotto attraverso un linguaggio veemente e originale allo stesso tempo, tanto quanto basta per spiazzare il lettore, sorpreso di fronte a un dettato epurato da incrostazioni letterarie, che procede spesso per accumuli, conferendo allo stesso un’ icasticità ruvida ed asciutta, sfociante talvolta in enunciati al fulmicotone: “Vuoto come una carcassa/ agile come un cacciatorpediniere/ guido un’utilitaria/ nella notte autostradale./ I keep coming back/ for a little more of your love”. Altrove, quasi si trattasse di un Qohélet dei nostri tempi, sostiene lapidario che “…essere vivi tra le macerie/ della certezza e della sorte/ è una gran cosa.”. Cioraniano quanto basta per colpire dove più duole, Molinaroli addita e denuncia perseguendo la via della chiarezza, chiarezza intesa come impegno etico e morale, quale dovere volto al recupero di un bene spirituale, ricordandoci però di non aggrapparci a facili scuse e alibi gratuiti: “…e ricorda/ a chi esiste/ come una gita scolastica/ che la morte/ non ha preferenza.”. C’è una rabbia che scorre come fiume carsico lungo lo sdipanarsi dell’intera raccolta, esibita per mezzo di una parola sorvegliata e vigile, che emerge dalla pagina come un gancio ben assestato, mostrandosi nella sua nudità e pregnanza semantica: “Il culo sudicio d’aprile/ e le bestie proletarie/ inghiottono merda/ sul fondo di un amaro”. Fulminee le similitudini, personificazioni e metafore che emergono inaspettatamente, sorprendendo per freschezza e originalità; eccone una fra tante: “…il futuro non ha gambe/ per venirmi incontro/ nemmeno braccia per salutarmi”. Troviamo così immortalati in questo affresco odierno: scorci urbani, tensioni gnomiche, affilate analisi che affondano a piene mani nel presente magmatico: “…Una guerra vista da lontano/ è come un tramonto visto dal vivo/ voltandosi scompare….”. Percorsa da un fremito di lucida e fredda inquietudine, la raccolta ci coglie come in un vorticoso susseguirsi di visioni che a malapena riusciamo a decifrare. Stupisce la coesione e la robustezza del libro in questione, tanto più sapendo si tratti di una scelta di poesie provenienti da diverse sillogi, apparse separatamente lungo un’arco temporale di più di un lustro, qui per l’occasione opportunamente migliorate e rimaneggiate.
Una pronuncia, è il caso di sottolinearlo, potente e precisa, che col bisturi del verso squarcia il muro delle ambiguità, demistificando una realtà sommersa ai più, resa fedelmente poiché fotografata nella sua perentoria, concreta, cruda, quotidiana immanenza. La realtà di questo nostro sciaguratissimo e ipocrita mondo d’oggi.

Alessandro Salvi
© 2009 Alessandro Salvi

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Mario Fresa sulla poesia di Simone Molinaroli

Se la poesia è un irridente mostro gentile

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Una mobilità irridente e un’autentica sofferenza – simulata, quest’ultima, con l’impiego di una maschera di stravolta indifferenza e di gioco – muovono e plasmano la scrittura di Simone Molinaroli, poeta felicemente anti-lirico, paradossale e imprendibile.
Nella raccolta Cani al Guinzaglio nel Ventre della Balena (Fara editore, 2008) la sua scrittura si rivela ansiosamente aspra e indomabile, spinta ovunque da una febbre e da un’irrequietezza difficili da comunicare, ma che rendono colui che ne è tutto attraversato un animale strano, che pare vinto dalla disperazione e che poi trova, d’improvviso, l’inattesa energia che gli permette di deviare la direzione della sua strada.
Nella poesia di Molinaroli, dunque, l’ordine è dato dall’indisciplina, e la regola è dettata da una gioiosa e anarchica disubbidienza, irreversibile e totale: il poeta è sempre un accordo stonato all’interno dell’armonia del mondo, e ogni suo approdo è una specie di cadenza d’inganno, una soluzione che non costruisce un bel niente, ma che imbroglia e che di nuovo rimescola, confusamente, le carte del gioco. Ed è l’estremo, continuo, vertiginoso ventaglio di possibilità di cui gode l’uomo libero a condurlo verso lo spavento e verso l’insofferenza nei riguardi di ogni eventuale quadratura accomodante; e la scrittura di Molinaroli si presenta proprio così: irriducibile a qualsiasi schema o prigionìa formale; ambigua e bifronte, perché contemporaneamente comica e tragica; ma sempre disperatamente vinta dall’amore per l’esistenza.
Una poesia che non conosce conciliazioni, né compromessi con la dura realtà che osserva e che descrive, tra l’altro, con un’onesta, sana crudeltà – nel tono e nel linguaggio – che può ben dirsi rara nell’attuale scrittura poetica italiana.

Un testo tratto dalla raccolta:

Le quattro righe
che porto in faccia
non dicono lo strazio di guardarvi
mentre tra una birra e l’altra
filtrano i postumi dell’infortunio
i tentacoli atrofici dell’inutile scommessa
e le mani di un mostro gentile.

Simone Molinaroli, Cani al Guinzaglio nel Ventre della Balena (Poesie 1994 – 2000), introduzione di Chiara de Luca, Fara editore, pp. 104, 2008, euro 12.

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Su Cani al Guinzaglio nel Ventre della Balena di Simone Molinaroli
recensione di Vincenzo D’Alessio

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La raccolta poetica di Molinaroli è una vera sfida alla civiltà del presente, una buona scrittura per catalizzare le voci giuste in una società disattenta. Troppa folla avvinta al benessere. Troppa assenza dalla vita famigliare. Troppo di troppo in ogni situazione sociale. Basta! Lo dicono i versi di tanti giovani poeti che saranno le fondamenta della poesia di questo nuovo centennio: “Io respiro / un po’ della mia morte / l’acre marasma della guerra tra i tempi / l’annientamento di un contendente” (pag. 35).
Ho incontrato tanta bella poesia in questi anni di appassionate letture poetiche. Autori che sono scomparsi in una luce fulminea. Autori che resistono grazie alla perseveranza di un’Arte sublime che rifulge in molte altre esperienze: musica (principalmente), pittura, scultura, teatro. Tra questi nomi figurano quelli di donne “sublimi” come la poetessa Maria Luisa RIPA (1966-2003), poeti come Antonio D’ALESSIO (1976-2008), William STABILE, Stefano SANCHINI, Massimo SANNELLI e altri ancora. Riverbera in loro la traccia indelebile della “fame” di eguaglianza in un mondo abbacinato dalla malefica misura dell’avere: “Il culo sudicio d’aprile / e le bestie proletarie / inghiottono merda / sul fondo di un amaro” (pag. 34).
Quanta strada ha fatto la Democrazia in una “specie” di nazione come la nostra? Dove cercare il sogno di una parità tra vincitori e vinti? “La ferocia irriducibile dei vinti / veste il germe del nulla / di bellezza e sacrificio / senza storia” (pag. 30). Allora la voce dei Poeti (quelli veri) si fa voce di Poesia Civile, che non è l’unica strada della Poesia contemporanea ma è l’unico modo per fare giungere alle orecchie cementificate dalla telemania della gente della nostra terra il messaggio vero, personale e poi universale, del disagio che i giovani vivono a causa dei meno giovani che non lasciano il Potere (chiamiamolo anche Dio Denaro, Dio Benessere, Dio Violenza, Arroganza, Ipocrisia, et altro). La mancanza assoluta di “nutrimento di una stirpe eletta di gladiatori brucia / nella calca di sogni infausti” (pag. 91).
“Il futuro non ha gambe / per venirmi incontro / nemmeno braccia per salutarmi” (pag. 92). Ben venga, questa melodia underground, questo gospel irriducibile dei ribelli, dei giovani costretti a scappare (migrare) dalle città inadatte a raccogliere i sogni “moonlight”, nel continuare ad avere “sete” di un Amore che soddisfi prima l’anima, poi il cuore dei “tedofori / della olimpiade giornaliera dei perdenti” (pag. 93).
C’è una costante crescita nella poetica di Molinaroli tra le poesie che compongono la prima delle cinque parti in cui è divisa la presente raccolta: nella prima parte compaiono tante similitudini che tendono a rafforzare le immagini bellissime della scrittura poetica che fondano sullo studio di altri Autori: “Depresso sulla spiaggia / come un rauco muezzin” (pag. 26); “Vuoto come una carcassa / agile come un cacciatorpediniere” (pag. 27); “Estrarrò parole / con la grazia di uno sminatore” (pag. 52). Nelle parti successive le poesie divengono sempre più precise nell’ordine delle parole, dei verbi, del tempo incluso nelle chiuse dei versi. Compaiono con maggiore frequenza le parole nella lingua inglese (che oggi è la più conosciuta) quasi a volere intavolare un dialogo multiculturale e polivalente. Credo che questa scrittura poetica troverà molti ascoltatori, molti amanti, molti prosecutori.
Non è una Poesia facile, affronta i temi attuali partendo da un lungo Nocevento internazionale, ma credo raggiungerà buone mete come (permettetemi una similitudine ): “acrobazia discreta / sospesa tra l’argine e l’abisso / il desiderio e il perdersi” (pag. 94).

Dicembre, 2008

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“Cani al guinzaglio nel ventre della balena”, Ass Cult Press, 1997, 2001, 2004
lettura di Giuseppe Cornacchia

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Simone Molinaroli, 1970, pistoiese, manifestava nel 1997 una già chiara autonomia rispetto a ciò che qualche anno dopo si sarebbe detto al suo meglio generazione: anni ’90 secondo una prospettiva soggettiva ma non intimista (“La prima cosa, le righe della camicia / ma il resto è attenzione”, “Ero immerso nel crepuscolo / quasi il mio oceano distante / dal macello umano fologorante”), una missione definita (“Su un treno luminoso / torno uomo dissidente”), un insieme radicato di relazioni (“tornare da Scandicci è tempo perduto / acido – rimmel – occhi di sciacallo / tatuaggio e artigli felici.”), una scrittura a scatti efficace soprattutto negli incipit (“Oggi è finito l’inverno / ma senza inutili commiati”, “Il culo sudicio d’aprile / e le bestie proletarie / inghiottono merda / sul fondo di un amaro.”) con qualche smagliatura discorsiva legata forse ad esigenze di oralità performativa (“la cosa più bella vista ultimamente / – armonia, ritmo, velocità d’esecuzione – “) ma assai densa nei testi più riflessivi (“depresso sulla spiaggia / come un rauco muezzin / a guardare la mareggiata / divorare l’arenile”).
Ne viene fuori un complessivo senso di vitalità un po’ sciupata in vitalismo (“Piedi nudi di ubriachi / e popoli fuori concorso / al festival / del dissolvimento indolore”), focalizzato nella conclusiva Lungomare vuoto di Follonica (“Lungomare vuoto risacca dub / sono un rappresentante di vibratori / deraglio cromosomi / sulla battigia infelice / dei mutanti. / Lungomare vuoto di Follonica / articoli in latex sparsi sulla sabbia / un cameriere sbiadito / serve il conto. / La seconda visione / di fame perduta / e scarpe di cemento / a fondo del mare.”), probabilmente il testo più riuscito e rappresentativo di un libretto da conservare e riaprire a spizzichi, verso a verso, così da cogliere succhi autonomamente da tutti i rivoli: numerosi sono infatti gli appunti che si potrebbero ancora sviluppare e le aperture da seguire, a testimonianza di una notevole capacità autoriale di osmosi e polisemanticità. Un autore, Molinaroli, poco incline al letterario, capace di fotografie più simili a tac che a belvedere paesaggistici, di timbro deciso ed elettriche folgorazioni.
La successiva raccolta (“Neurovegetazione”, Ass Cult Press, 2001), più breve, spinge verso una rabbia sublimata in almanacchi (spiega il mondo, più che viverlo o semplicemente raccontarlo) e verso la necessità di dare un senso discorsivo ad elaborazioni ormai scadute; una dedica a se stesso, pare, come voler mettere suggello ad un periodo che mano mano si allontana (“Sangue mio nell’erba / sulla calce al limite del campo / il maori si tuffa / io sono morto / come un pomeriggio al cinema / senza sigarette”).

— diritti riservati, ottobre 2004 www.nabanassar.com

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Stanate la speranza e giustiziatela sul posto.
Su Il crollo degli addendi di Simone Molinaroli

di Chiara De Luca

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Durante la presentazione bolognese del Il crollo degli addendi, David Napolitano, poeta e compagno di Simone Molinaroli nell’avventura di Ass Cult Press e Enduring Poetry, mi chiedeva se io non pensi che ci sia conflitto tra il ruolo di scrittore e quello di critico letterario, e quali siano i miei criteri di giudizio quando mi avvicino ad una poesia.
“Le opere d’arte sono di una solitudine infinita”, scrive R.M. Rilke nelle Lettere a un giovane poeta, “e nulla può raggiungerle meno della critica. Solo l’amore le può afferrare e tenere e può essere giusto verso di loro”. E l’unico modo possibile per leggere Il crollo degli addendi è proprio l’amore, quale principio vitale, “come l’eterna pulsazione / che rende giovani e immortali”, energia che avvolge, stringe e che segna, come pare simboleggiare la bellissima illustrazione di copertina di Gigi Fagni.
Perché quella di Molinaroli è una poesia che chiama, che quasi aggredisce con la sua vitalità, la sua valenza comunicativa forte, spesso dissacratoria, che colpisce a segno senza giri di parole o sotterfugi e mascheramenti letterari. È una poesia diretta, immediata, franca, come lo è Molinaroli stesso, come lo è l’introduzione al Crollo, che provoca, quasi “aggredisce” il lettore:
“Sono altro da ciò che vedete / ho già piegato il bancone con i miei desideri / ho già scolpito l’universo con queste mani gentili / e non aspetto che voi e la vostra vita da invadere / non aspetto che di vedervi / implorare un carnefice affascinante / che esegua lo spartito / della pena che preferite”.
Quella che si chiede al lettore non è dunque un’attitudine passiva, meramente ricettiva, bensì una partecipazione, l’impegno ad andare a fondo nella materia ardente di questi versi, in quel dolore così concreto che “avrà sempre / l’odore del mentolo su un volto rasato”. Occorre dunque non tirarsi indietro, non avere paura, così che “Se il male deve essere / che sia male irrimediabile / e non lamento annoiato / che sia rovina materiale / e non crollo teorico”. Soltanto una volta posti davanti al male – quella pena di cui Molinaroli nell’introduzione si offre di “eseguire lo spartito” – è infatti possibile aggredirlo: “Con il palmo della mano sinistra / saluto il male / come l’amico più caro / lo accolgo nella stanza segreta / e con l’altra mano / quella – per me, mancino – inadatta / lo uccido. / Pace”. I versi di Molinaroli rispondono in pieno a quella che è a mio parere la funzione primaria della poesia: comunicare. È il motivo per cui sembrano scritti espressamente per essere letti ad alta voce, dal momento che: “C’è poco da fare / se non essere ubriachi fino / a non ricordare / la gentilezza dell’odio in manovra / la strategia raffinata / dell’azione che non ricorderemo / se non è forte abbastanza / da diventare una tradizione orale / che noi stessi racconteremo / come una storia senza padrone”. Sono versi che possono essere musicati, seguendo il flusso dell’energia che si espande dall’inizio alla fine del libro, tenendo in tensione la parola, senza cedimenti. Ma sono anche versi in cui il fuoco è contenuto nella forma, senza tuttavia esservi confinato. E non mancano immagini metaforiche forti, (p. es.: “le madri sono fiori di carta / impollinate da api meccaniche”), che bilanciano armoniosamente le espressioni del parlato e le sfumature sarcastiche (“La stranezza è la comica forza / del dispiacere fatto in casa / progettato con l’ingegno del divano / e la gentilezza della carta igienica”).
Come dicevo nell’introduzione al Crollo, la poesia di Molinaroli non lascia spazio all’illusione salvifica (“radete al suolo i cinema / stanate la speranza / e giustiziatela sul posto”), rifugge sentimentalismi e pietismi di maniera, che vengono piuttosto colpiti e smascherati: “L’uomo che dorme in I.L.H. è il / fratello di hai qualche moneta / le monete mi servono per il pedaggio autostradale / e sei un mendicante in franchising / la vita ti ha scippato la vita / hai firmato un contratto per lo / sfruttamento d’immagine di un barbone…”.
Ciò che pervade questi versi è uno slancio incontenibile per “la regina della festa”, la vita, da viversi a fondo anche nel dolore, anche quando lei “era lì davanti / a inforforarci le spalle / di verità schiaccianti”. Ed è dallo stesso slancio che scaturisce anche la rabbia, la rabbia di chi non accetta che la vita sia svilita e strumentalizzata, neppure nello scoraggiamento più profondo, in cui una fede comunque persiste. Non si tratta però mai né di afflato mistico, né di religione, il cui “potere indiscusso” “si manifesta / in ogni esecuzione”. Si tratta piuttosto di una fede diffusa nella capacità dell’uomo di vivere ogni cosa fino in fondo, di sentire fino alla consunzione, “anche se / abbiamo tutti amato / qualcosa che non esiste / e maledetto la speranza / e l’attesa incalcolabile dell’avvento / di un regno, di una parziale salvezza. / Abbiamo tutti amato / qualcosa che non esiste. / Per questo, sopravvissuti.”

da FARANEWS – Numero 76 – Aprile 2006

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“Con la grazia di uno sminatore”
di Chiara De Luca

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Nel gennaio del 2006 è uscito Il crollo degli addendi, raccolta poetica di Simone Molinaroli, di cui ho curato l’introduzione, sottolineando come la sua poesia sia in continua evoluzione e abbia conseguito negli anni un sempre maggiore equilibrio tra la cura formale e una inalterata energia che abita i versi, sconfinando spesso nella rabbia, che fa da contrappunto alla resa dolente e al ripiegamento su se stessa di tanta poesia contemporanea.
In questo volume sono pubblicate le prime due raccolte di Molinaroli, Cani al guinzaglio nel ventre della balena e Neurovegetazione e rileggerle (pur con le modifiche effettuate e le migliorie apportate) è come risalire alle sorgenti della sua voce, e notare come già vi fossero presenti gli impulsi, gli stimoli e le tematiche poi approfonditi e sviluppati nel percorso successivo.
La poesia di Molinaroli non si arroga mai una funzione salvifica e consolatoria, non offre rifugio né scappatoia da una realtà dipinta e spesso additata in tutta la sua durezza, senza nulla tacere di squallore, miseria, compromesso che la abitano e pervadono. Quelli di Molinaroli sono versi di denuncia contro la cieca ipocrisia del potere che si autoalimenta, fagocitando e distruggendo ogni eventuale ostacolo che si trovi sulla sua strada, nel momento stesso in cui vuol dare l’illusione di sostenere, indirizzare e costruire. La poesia di Molinaroli non teme di indagare il vuoto, lo smarrimento esistenziale, la solitudine disperata che è un estremo tentativo di sottrarsi all’affermazione diffusa dell’effimero, in cui il soggetto è spesso trascinato, o attirato da una sorta di oscura volontà di autodistruzione, che lo porta a immergersi ad occhi chiusi in un flusso da cui pare poi impossibile sottrarsi.
Eppure è sempre presente un guizzo, che muove il tentativo ultimo di riesumare il “desiderio indomabile di proclamare l’impero / e svuotare il caricatore / addosso all’onesto padre / della terribile assenza di poesia”, di distinguersi sia da chi “esiste come una gita scolastica”, sia da quei “sette miliardi di regnanti pieni di dolore” che “si apprestano alla carneficina / come a una merenda.”
Molinaroli sembra voler negare la possibilità di una speranza (stanate la speranza e fucilatela sul posto, scriveva nel Crollo), perché “Non c’è salvezza, lo sanno / i naufraghi scarni di questo viaggio / e i dottori prescrivono speranza.” Eppure seguire questi versi è come assistere a un movimento di sistole e diastole, che spesso sfocia nel paradossale e vitale “desiderio inesauribile / di scampare alla mattanza”. La via però non è quella indicata e all’apparenza spianata dagli “accattoni di futuro”, dal “cuoco del progresso” che “cucina e conserva / dolci speranze”. È una via impervia, fatta di ribellione e rinuncia, dove è necessario distruggere per poter ricostruire, sulle macerie delle proprie stesse speranze, per accorgersi che “Essere vivi tra le macerie / della certezza e della sorte / è una gran cosa.” Ben più che muoversi sul proscenio di un teatrino illuminato da illusioni (apparentemente) a basso costo.
Molinaroli non si sottrae alla mediocrità del reale, vi sprofonda, se ne lascia contaminare, in treno “seduto accanto a scheletri rosicchiati / teschi dai capelli sporchi.” Oppure “Smarrita ogni bellezza / sommersa ogni ragione / improvvisando gli ultimi chilometri / gli occhi faro in seminati / dall’angelo assente, distesi / imprecando contro bandiere e fenomeni.” Altrettanto fa la sua poesia, che si muove tra slanci lirici e momenti alti e invettive prosaiche spesso molto violente, tra citazioni sartriane en passant e rievocazioni di canzoni, creando un ritmo franto, spaziando tra timbri e suggestioni visive e auditive cangianti che spiazzano, riproducendo la molteplicità a tratti allucinata di una realtà in cui perfino “l’orrore perde il suo nome”, perché “Se un confine c’era / l’abbiamo varcato dormendo / con la guardia stanca.”, se un confine c’era l’abbiamo varcato proprio ignorandolo, chiudendo gli occhi per non prenderne coscienza.
Compito della poesia è dunque quello di spalancare gli occhi anche quando fa male, andando incontro a quel terrore che “è un amico / che vive solo / e viene a cercare compagnia.”
Per contrastare il caos e lo smarrimento di ogni orizzonte, la poesia di Molinaroli non si rifugia nella ricerca della bellezza e dell’armonia, bensì si smarrisce essa stessa, deraglia, cerca il suo opposto perché: “Bisogna mettersi a guardare / dentro le televisioni / per capire che l’uomo con il mitragliatore / è fuori e sta correndo ad ammazzarci.” E per potersi risollevare dopo il colpo, occorre “Vivere del macabro splendore / di notti demolite / resistendo al disordine / per cedere felici / a un fendente impreciso del terrore.”
“È soprattutto sulle spiagge inventate / che si spengono / i nostri motori”, scrive Molinaroli, è soprattutto da illusioni prefabbricate e false speranze che scaturisce la disperazione. È dunque solo dalla coraggiosa presa di coscienza della realtà che nasce la forza per contrastarla, senza fornirsi alcun appiglio, mentre al contrario “Come in una colonia tropicale / esseri ingannati inventano / rivoluzioni-villeggiature / per viaggiatori di terza mano.”
La poesia di Molinaroli si appropria del luogo comune e lo rovescia, mostrandone l’inconsistenza:
“La pazienza non è una virtù / prendiamoci ciò che ci spetta / prima che l’ingestibile disordine deragli / sulle palpebre anoressiche di chi è avanguardia di sé / di chi cade e finge di volare.” Sono versi che esortano all’azione, invitano a incarnare la parola stessa, che dalla pesantezza del vuoto cerca di spiccare il volo, liberandosi dalla zavorra d’ogni buonismo e pietismo, perché “Senza la tenacia / dei cani da caccia / non si riaprono partite già chiuse”.
E tra versi violenti di denuncia trova spazio anche la disperata malinconia di un amore che dissolve facendoti capire che “soffrire è uno sport / senza vittoria / se lei svanisce in una piega del mondo / dicendo solo ciao”.

prefazione a Cani al guinzaglio nel ventre della balena, Fara, Santarcangelo di Romagna 2008

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Gioele Valenti su “Neurovegetazione”  (Ass Cult Press, 2000)

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Ha senso parlare ancora oggi di poesia? Disossando, scarnificando. Si. Come specchio che rifletta un’Anestesia Generale del sé. Un Narciso lobotomizzato che si dibatte tra i piaceri della Caduta e il dolore della coscienza. Ma parlare di poesia, è già Poesia? In questa parola, che è intenzione – il potere è tutto lì! -, risiede già il contenuto assertivo di questa dimensione? Si. Vegetazione di Neuroni sempre più simili ad uomini, sempre più stanchi, nelle loro disperate ramificazioni orizzontali, nel loro essere collegati da fibre – sono più le invisibili/elettriche che quelle materiali/nervose -, nel loro maturo cascare dall’albero quando è ora. E’ora!. E Ora? Neuroni che producono sintassi, come omologhi schemi di legami chimici, come luce materializzata, verso i nostri antichi progenitori fotonici. Sono versi apocalittici, millenaristici, col gusto del paradosso (fine secolo!) e del definitivo. L’epitaffio sulla Tomba delle Parole. Nello scenario di una natura morta, che muore in divenire – death-in-progress -, Simone si muove come un Bambino Apolide in una comunità di plastica. Si piange la musa di cui si è spento pure il ricordo. Bello.
Joele Valenti
succo acido marzo 2002

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Massimo Baldi su “Il Crollo degli Addendi”

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La sola cosa che vorrei dire su Il crollo degli addendi di Simone Molinaroli è che è un volume penetrato da una a mio parere inconfondibile potenza religiosa, e lo dico malgrado la salda profanità del mio acerbissimo mestiere di critico, e malgrado la massiccia misura in cui è profano l’individuo Simone Molinaroli, tanto come voce quanto come opera. Alcuni elementi de Il crollo degli addendi sono, pur in tutta la loro modernità, strettissimi parenti non tanto del sermone e delle sue varianti, quanto del canto della melanconia angelica, della sapienza lasciata sola. Il tenore del poema e la sua vocalità in più di un punto sono incentrati sull’oltranza di un dialogo che ha e non ha un interlocutore, che ha un ‘tu’ che però non è determinato. E questo, anche e soprattutto all’interno di un poema profano, è l’abc del dialogo con la divinità. Con una divinità, beninteso, lontana anni luce da ogni spazio sacro, spoglia di ogni faciloneria ideologica, gergale e mitologetica (Azioni cattoliche, Fratelli Musulmani, Sionismi etc.). Parlo proprio di una luce messianica, oggettuale eppure non-data, che sta nel risvolto di stoffa dell’esperienza profana, moderna, in cui il poeta enuncia la propria profana sapienza. Anche quando la poesia di Simone narra, verbalizza, il mio contegno critico mi fa porre una domanda: a chi le racconta queste visioni, suggestioni e precetti? Certo che c’è un lettore, e che è anche lui qualcosa di oggettuale e non-dato, un ‘tu’ che marca non la sua identità, ma il suo differire; ma quando la poesia, volente o nolente il poeta, modula le sue tonalità nell’orizzonte dispiegato da questo oggetto mai dato che è l’Altro, il suo poetato diviene messaggio angelico, testimonianza in corso di consegna, voce che fluisce indeterminata in un framezzo.
Ma c’è un’altra prospettiva che ricollega Il crollo degli addendi non alla poesia religiosa, ma ad una concezione necessariamente teologica della lingua. Questa prospettiva è per un verso immanente all’economia delle scelte verbali che sono all’opera nel libro, per l’altro è in esso più o meno consciamente richiamata dalle allegorie che ne animano la dinamica figurale. Voglio dire che questa poesia, da un lato cristallina, enunciativa, elementare, e dall’altro comunque irriconducibile ad una vera e propria presa di senso comunicativa, srotola un orizzonte visivo intenso, fitto, ai limiti della successione di fotogrammi, il quale però non intesse uno scenario accordato, non dipinge un ambiente. La visionarietà del poema arriva alle soglie del vedere, ai confini dell’occhio immaginativo e condottici a quella soglia ci pone un bivio, che porta comunque nei dintorni dell’appello divino. O la fine delle immagini conduce ad un abbandono mistico, in cui la dispersione è accolta nella sua obnubilante totalità, nella sua “divina caligine” (Origene); oppure, ed è la prospettiva che prediligo, la fine dell’immagine spalanca le soglie dell’ascolto. Dove non sto più dietro a quanto di comunicabile ed immaginabile mi viene detto dal poema, io do ascolto al suo dettato, alla materia rocciosa del suo verbo, alla solitudine della scrittura, al detrito. E questo atteggiamento è proprio dell’accostarsi passivamente ad un verbo già dato, in cui il lettore intreccia l’ansia geroglifica, decodificatoria, melanconicamente sapiente, all’ascolto di una voce che viene semplicemente colta; è proprio di un rivolgimento che intenziona il libro di Dio, la testimonianza biblica.
Dicevo – e con questo concludo – che questo ordine di cose è richiamato anche allegoricamente dalla poesia stessa de Il crollo degli addendi. Penso a versi come “dove il respiro si amplifica/ e la parola si sgrana”, o “un gatto in bianco e nero/ sdraiato sullo specchio rotto/ delle disgrazie”, oppure “al suolo canta il dogma”, ma soprattutto penso al titolo, ‘il crollo degli addendi’. In tutte queste immagini si comunica visivamente l’oggettualità di una distesa di macerie, di residui, su cui, come detto, o il lettore investe la sua mistica postulando una totalità cosmica, oppure tenta di orientarsi, dando non più occhio alle immagini comunicate, ma ascolto a quanto di incomunicabile le parole, come figure, testimoniano. E se dietro questo libro vi sono dei dolori esperiti, profanamente esperiti, è proprio solo grazie alla mediazione di questa voce muta e rocciosa, di questa resa babelica della lingua, che di questi dolori ci viene non comunicato per convergenza di significati quanto vi è di comunicabile, ma testimoniato, per analogia, quanto vi è di incomunicabile.

© Massimo Baldi

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Dolore è una parola carnalesulla poesia di Stefano L0refice, Martino Baldi, Simone Molinaroli
di Chiara De Luca

(da Poesia – Novembre 2006)

Dolore è una parola carnale | sulla poesia di Stefano Lorefice, Martino Baldi, Simone Molinaroli | Chiara De Luca | Poesia novembre 2006
Dolore è una parola carnale | sulla poesia di Stefano Lorefice, Martino Baldi, Simone Molinaroli | Chiara De Luca | Poesia novembre 2006

Dolore è una parola carnale | sulla poesia di Stefano Lorefice, Martino Baldi, Simone Molinaroli | Chiara De Luca | Poesia novembre 2006

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Demetrio Scelta da http://eosblog.altervista.org su “Siamo Nati Lontano” de La Fine del Mondo (www.lfdm.org)

Consigli musicali per la primavera con una piccola anteprima in free download:

“Siamo Nati Lontano”, EP d’esordio de La Fine Del Mondo

Il Mondo è Morto, non senti l’odore?
Si sente odore d’incenso e idrocarburi,
di eroina e trasmissioni elettorali.
Non senti il suono continuo
del calcolatore bizzarro che sancisce
la Sua Morte?
Non senti il canto degli Sterminati?
I traccianti nel cielo non sono
pirotecnie di compleanno
e nemmeno naufraghi in gommone
che segnalano disperati la posizione.
In televisione non ne danno notizia.
Guardie armate sparano
colpi d’avvertimento verso il cielo
per arrestare la marcia dei curiosi
e spesso un Tedesco vestito da Donna
parla della necessità del confronto,
ma necessariamente, nella Verità.
Il Mondo è Morto, non senti l’odore?
Non senti le trombe, gli sciacalli, gli avvoltoi
il buonumore raro del barista
che ti parla di un futuro improbabile
ti passa un bicchiere avvelenato
da un sorriso fuori tempo?
(Le profezie, la termodinamica, il buonsenso, la noia,
pronosticano in tempi diversi lo stesso evento
peraltro già avvenuto…)

(Simone Molinaroli)

A volte mi capita di pormi una domanda che, me ne rendo conto, ai più può apparire naif o comunque poco interessante, ma che invece è capace di darmi da pensare per parecchio tempo: che ne è stato della Poesia? Perché questo nostro mondo, l’aveva già capito Pasolini, è affetto da una terribile assenza di Poesia, è affamato di Parole, Suoni, Immagini che non siano quelle consuete, televisive, anestetizzate, vuote: questo nostro mondo, il nostro tempo, ha terribilmente bisogno della sua poesia, e di un suo linguaggio, anche se qua e là sembra non rendersene conto. È abbastanza bizzarro che, alla parola Poesia, l’uomo medio (noi tutti, ammettiamolo) voli col pensiero a qualche rima petrarchesca imparata ai tempi del liceo o, più spesso, allo sciabordare delle lavandare di pascoliana memoria, come ci fossimo tutti convinti del fatto che la Poesia esista tra i banchi di scuola, incartata e impacchettata dentro austeri libri coperti di polvere abbandonati su qualche scaffale; il rischio non è tanto il convincersi di questo, quanto evidentemente il rassegnarsi a questa convinzione. Perché la Poesia esiste ancora, è viva, il gusto della Parola non è estinto, la volontà di generare significato laddove non ci si attenderebbe di trovar più niente non si è spenta: è un fuoco molto flebile ma tutt’altro che domato, perché è necessario, è una delle cose che forse più di ogni altra ci identificano come esseri umani, dal momento che ci piace tanto considerarci superiori al resto della fauna (e della flora) che vivifica questo sassolino sperduto nell’universo. La Fine del Mondo, ma forse a questo punto lo avrete già capito, non è semplicemente un qualcosa di raggiunto e attestato, una semplice constatazione: è un punto di partenza e non di arrivo, è da questa constatazione che diventa possibile muovere attraverso il deserto di nietzscheana memoria, per così dire. Certo, è anche una band: Simone Molinaroli, poeta e performer pistoiese; Alessio Chiappelli, già voce e chitarra dei S.U.S.; Simone Naviragni al basso e Matteo Parlanti alla batteria, ad occuparsi della sezione ritmica, e infine Valentina Innocenti, danzatrice che accompagna questo combo nelle esibizioni dal vivo. Una band, quindi, un’idea e da oggi quattro tracce, un EP intitolato Siamo Nati Lontano. Ai più attenti tra voi non sarà sfuggito che già un paio d’anni fa, su queste pagine, avevamo avuto l’onore di consigliarvi un lavoro a nome dei S.U.S. e di Simone Molinaroli, La Conseguenza di Tutto EP (qui trovate uno streaming dei cinque brani di quel cd): cambiano i protagonisti, almeno per metà, ma non la sostanza. Così come La Conseguenza di Tutto rivelava un’urgenza fuori dal comune, questo Siamo Nati Lontano, fin dalla copertina, riprende il discorso da dove era stato lasciato, approfondendolo e spingendolo a definitiva maturazione, squarciando il velo e marciando verso una luce accecante che sembra indicare proprio un nuovo inizio: la prima cosa che salta all’orecchio dell’ascoltatore è il suono, estremamente più curato che in passato, nel quale si riconosce la mano di Gioele Valenti (forse più noto nella scena alternativa nostrana come HERSELF) al mix, e che si arricchisce di una carica che potremmo definire, semplicemente, “post-“, col rischio di incorrere in un paradosso che, nel mondo dell’Arte, ha inghiottito il senso da trent’anni a questa parte; che significa questo prefisso, “post-“? Il suono de La Fine Del Mondoassomiglia al boato sordo che segue una colossale implosione: come recitano i versi stessi di Molinaroli “Il mondo è Morto, non senti l’odore?”, tutto è già accaduto, tutto è già successo senza frastuono, nel silenzio più sordo e condiscendente: che ne è stato di noi, in tutto questo? Esiste ancora il miracolo dell’Altro? Che ne è dell’Uomo? Chitarra, tremolo e violino introducono aForse un giorno, brano d’apertura del lavoro (che trovate in free download dal bandcamp della band in fondo a questo articolo), giocato sull’alternanza di pieno e vuoto, ambiente musicale su cui cresce la poesia di Molinaroli; alcune storture elettroniche cesellano le ritmiche cadenzate lungo questo quattro minuti e mezzo che preludono, in un finale in crescendo, allo shuffle dal vago sapore di bossa nova di Illuminazione Nr.1, lacerato dai fiati, malinconico e spezzato a metà da improvvise esplosioni rumoriste. Il terzo episodio del lavoro, Siamo Nati Lontano, è una vecchia conoscenza dei nostri affezionati lettori, che già avevano incontrato questo brano nel precedente La Conseguenza di Tutto: ma sono passati un paio d’anni e oggi il brano si giova di una struttura e di un lavoro di cesello che lo rendono decisamente il fratello maggiore del pezzo apprezzato in passato. Chitarra, basso e batteria mimano la forza quieta delle onde del mare, o il suo ricordo intrappolato nelle valve di una conchiglia accostata all’orecchio; riverberi distanti come distante è il luogo che evocano, un’elegante ballata completata da una delle poesie più belle che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni, parole che a loro volta cullano e stordiscono fino alla conclusione, ancora una volta rumorista, in cui si spegne ogni suono, lentamente e inevitabilmente. Tutti Siamo Morti chiude il lavoro con ritmiche diseguali, divagazioni free sporcate ancora dal rumore, prima di un crescendo minaccioso che riporta alla Parola, al già compiuto: Siamo morti tutti, come negarlo,/ in quelle ore che sono luoghi non mappati/ di cui gli orologi non portano Il Segno./ Siamo morti tutti, come negarlo./ E come negare lo spietato dominio/ dell’ambizione alla rovina,/ come negare/di ciò che “non può essere detto”. Il brano si spegne negli echi e nei riverberi, con un loop che sembra alludere a quella sensazione che chiunque si sia guardato attorno nella propria esistenza deve aver conosciuto almeno una volta. Dunque, mi si potrà domandare, questo EP, queste quattro tracce, pongono fine alla fame di Poesia che a volte nemmeno ci rendiamo conto di avere? Certo che no, perché il loro vero obiettivo non è questo: la ragione di questo impegno è spingere a domandare, dal momento che, se è vero che le risposte invecchiano, le domande, quando ben poste, restano sempre attuali. Non ci si può avvicinare ad un’opera come questa con lo stesso spirito con cui si consumerebbe un cd di musichette indie, o un album di semplice musica leggera;La Fine Del Mondo non è solo questo, non è l’antidoto al dolore delle masse blandito sotto forma di mp3 o snocciolato come la parola dell’ultimo Messia ubriaco salito su un palco: di capipopolo ne abbiamo già troppi, tre quarti dei quali continuano a parlare proprio e soltanto in virtù del fatto di non aver niente da dire. La Fine Del Mondo non è il sottofondo conciliante del vostro bisogno di sentirvi riflessivi, una volta ogni tanto, o impegnati; La Fine Del Mondo è quello che succede quando all’urgenza della Parola si mescolano il piacere del Suono e la reale necessità dell’Altro, per generare il rumore che fa la vita abbandonata a spegnersi nell’indifferenza generale. Tutte queste parole forse servono solo a confondervi le idee, me ne rendo conto; ma in ultima istanza quello che vorrei riuscire a dire è che queste quattro tracce hanno il potere di spalancare tutto un mondo, un non-detto che abbiamo consapevolmente scelto di lasciare dietro le nostre spalle, aprendo la vista ad un’altra prospettiva, andando a cercare la parola che possa racchiudere qualcosa del significato umano di ciò che ci accade, e che sia una parola nuova, viva, mai ascoltata, reale e soprattutto nostra, anche se magari ancora non ce ne rendiamo conto. Perché in definitiva è questo che fa la vera Arte, sia essa letteratura, pittura, musica o cinema: fornisce nuovi punti di vista, nuove posizioni da cui guardare le cose, mescolando politica, filosofia, linguaggio, suono e tutto quello che volete allo scopo di disvelare qualcosa. Che esista o meno una Verità, giova ricordare come gli antichi greci si riferissero ad essa attraverso una parola che letteralmente significa “non nascosto”. Siamo consapevoli di come questoSiamo Nati Lontano possa costituire, per molti, un ascolto complesso: ma è pur vero che questa è la sua essenza, e che richiede ben altro che due orecchie e un lettore mp3 per essere apprezzato. Richiede il vostro tempo, il vostro cuore e il vostro cervello; richiede la vostra buona disposizione. Richiede disciplina, perché tutto ciò che conduce in qualche luogo comporta uno sforzo di adattamento. Richiede impegno. Ma premia con il ritrovato gusto della Parola, e con un linguaggio che ritorna ad essere il linguaggio del qui e ora, il nostro linguaggio, la nostra Parola. L’ascolto di queste quattro tracce premia spingendoci a recuperare qualcosa della nostra umanità che forse nemmeno ci rendevamo conto di aver smarrito, che semplicemente avevamo nascosto, ma che c’è ancora: l’appetito per la domanda, il gusto del dialogo, la necessità del confronto, il bisogno di non essere soli. Qualcosa che, a tutti gli effetti, ha sempre fatto parte della nostra natura, e che non possiamo in alcun modo permetterci di gettare al vento. È per questo che vi consiglio di ascoltare questo EP, perché vi costringerà a pensare, perché è bene essere consapevoli, come scriveva il buon vecchio David Foster Wallace ormai troppi anni fa, che “la Verità ti renderà libero. Ma solo quando avrà finito con te”. Cose che non tutti ti dicono ma che fa bene non dimenticare mai, nell’attesa che la bellezza, come promesso, salvi il mondo, o che almeno ci avvii verso la felicità, per dirla con Stendhal.

Siamo Nati Lontano EP nasce dalla collaborazione di Ass Cult Press e Salmone Rec., neonata etichetta indipendente; maggiori informazioni si possono reperire visitando il sito web di Simone Molinaroli, la pagina ufficiale del progetto su Facebook o ancora qui. Ah, e qui trovate i testi di Molinaroli per questo EP. Buona lettura e buon ascolto… e soprattutto, adesso scaricatevi gratuitamente “Forse Un Giorno”!

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Claudio Donatelli di www.sound36.com su “Siamo Nati Lontano” de La Fine del Mondo

leggi l’originale

Da Pistoia e dintorni arriva la band La Fine del Mondo, una sorta di collettivo molto creativo che veicola il loro grande desiderio di poesia attraverso le casse degli ampli. Gli elementi che compongono le canzoni sono il poeta e narratore Simone Molinaroli e il chitarrista Alessio Chiappelli (già nei SUS).
La band registra circa un anno fa del materiale musicale che lo scorso mese di marzo è stato pubblicato per la Salmone Records in formato Ep. Siamo Nati Lontano è il suo nome e contiene 4 tracce, poche per soddisfare l’appetito dei tanti ascoltatori in cerca di nuovo, ma sufficienti per capire la stoffa di questi 4 musicisti.
Ballate rock di forte potere comunicativo, dolci note alternate ad impennate soniche sempre magistralmente governate. Chitarre liquide, calme, sulle quali navigano le parole narrate, sanno anche essere violente come una tempesta. I testi giocano con l’ironia per rivelare una forte critica sociale, per spazzare le bruttezze, per dare fiato ad una nuova civiltà. Dopo La Fine Del Mondo si può rinascere coltivando pensieri poetici.
Per arricchire il linguaggio artistico nella band troviamo anche Valentina Innocenti nei panni di danzatrice.
La Fine Del Mondo sono una nuova ed eccitante band che ha molto da dire e sicuramente lo farà a partire da questa prima piccola pubblicazione.

Siamo Nati Lontano (Ep) – La Fine del Mondo (2012, Salmone Rec./Ass Cult Press)

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Massimo Sannella di Stordisco su “Siamo Nati Lontano” de La Fine del Mondo

Più che un disco una performance, una scienza trasparente ed evolutiva di come dire certe cose in un mare di suoni e atmosfere questo “Siamo nati lontano” del combo dei La Fine Del Mondo, quattro tracce che fanno yo-yo  tra il metafisico e la provocazione scongelata di lontanissimi CCCP, una sorta di improbabile probabilità per raccontare – con grafiche sonore moderne – messaggistiche, approcci misterici, dei “porgersi” sperimentali che vanno subito ad agire in un ascolto sfizioso e intrigante. Sguardi, visioni, fumisterie e deliri sulle invariazioni dell’esistenza, parole e poetiche sghimbesce di serietà che inanellano genetiche post-esistenziali ed inquietanti dintorni, quasi un voyager rock attraverso lo spirito oscuro di chitarre elettriche e tutta l’armeria di una rock band che s’imbeve – anche magari bevendoci su – di implacabile e materico, che non vuole reggere chissà che confronto e con chi, solamente vibra la sua dimensione lenta e lavica nella continua accensione di un pathos per tutti. La poetica di Simone Molinaroli, la chitarra di Alessio Chiappelli, il basso di Simone Naviragni, la batteria di Matteo Parlanti e le sinuosità danzanti (nelle dimensioni live) di Valentina Innocenti, sono il contenuto autentico di tale musica, del romanticismo trasversale che riga “Forse un giorno/Fissammo l’orizzonte”, del flusso mariachi “contro” il disturbo vanesio ed inconcludente delle menti e dei corpi “Illuminazione Nr.1”, autore dello slow atmosferico che ri-disegna l’origine della specie non speciale per antonomasia “Siamo nati lontani” e dello scatto rock psichedelico, con veli sci-fi che “Tutti siamo morti” diffonde come un proclama Dada che ingloba bellezza remota; basta poco per dire no alle scemenze underground, basta passare attraverso il risveglio delle qualità migliori, e piccoli gioiellini come questo Ep bastano e avanzano per rimettere in azione l’anima al posto di un cervello vuoto.     Della serie, le piccole eccellenze strampalate che potrebbero riaddrizzare grammature di mondo.

Siamo Nati Lontano (Ep) – La Fine del Mondo (2012, Salmone Rec./Ass Cult Press)

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Claudio Lancia di Onda Rock su “Siamo Nati Lontano” de La Fine del Mondo

qui l’originale

Simone Molinaroli è un poeta, Alessio Chiappelli un chitarrista/compositore, Matteo Parlanti è un batterista, Simone Naviragni un bassista e Valentina Innocenti una danzatrice. Tutti insieme si fanno chiamare La Fine del Mondo ed hanno deciso di collaborare per contribuire all’incremento di percentuale di poesia nel mondo, raccontando la vertigine dell’esistenza degli ultimi uomini. “Siamo nati lontano” è il loro Ep d’esordio, uno spoken, un reading, un concerto rock, con tanto di chitarre fiammeggianti. Non c’è rimpianto in questi testi, solo constatazione, nessun chiostro di pietà, semmai un nuovo inizio all’alba della disfatta. Come giocolieri in equilibrio sull’abisso ci propongono una vertigine di rock, musica d’autore, pop umbratile ed avanguardie assortite. Quattro tracce con un’impostazione prossima al piglio degli Offlaga Disco Pax, ma con gli accenti spostati dall’elettronica al rock, roba che va di moda di questi tempi. Dal punto di vista musicale di carne al fuoco ce ne è in abbondanza: “Forse un giorno fissammo l’orizzonte” è dark wave, “Illuminazione Nr. 1” ha le chitarre dei pezzi slow dei Marlene Kuntz con inserti di fiato dal sapore ispanico, la title track ha languori post rock, con tanto di crescendo elettrico finale, “Tutti siamo morti” ha mostruosi spiragli light noise. Ogni volta che ascolto qualcosa del genere ripenso alla meravigliosa parabola degli inavvicinabili Massimo Volume, pertanto non vedo l’ora di avere fra le mani il primo album de La Fine del Mondo per vedere come andrà a finire questa storia. (Claudio Lancia 7/10)